Il suo significato
Quest’opera di Misericordia è una delle più difficili da praticare, perché il carcere non è un ambiente aperto e accessibile a chiunque. Le leggi e i regolamenti consentono visite esclusivamente a persone autorizzate e a volontari preparati. “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”: le parole di Gesù presentano il carcerato come persona bisognosa di cura e di relazione. Se il malato o l’affamato o l’assetato possono essere visti semplicemente come vittime, come persone segnate da disgrazie, il carcerato porta il segno di una colpa e di un delitto commesso. E Gesù, che si è fatto compagno di peccatori e persone disoneste annunciando a tutti la comunione di Dio e la possibilità della conversione, non esita a identificarsi con chi è privato della libertà in prigione. Egli non esita neppure ad apparire come un colpevole che suscita ripugnanza e disgusto in coloro che lo vedono e proiettano su di Lui il male di cui è accusato. Ogni essere umano è più grande dei suoi errori. Il cristiano è sempre attento alla persona e non solo al delitto da essa compiuto. L’autore della Lettera agli Ebrei invita i cristiani a visitare i carcerati a tal punto da sentirli propri compagni. La carità cristiana, fa capire l’autore, non si riduce unicamente a un aiuto materiale, ma alla condivisione della condizione dell’altro perché non spetta a me il giudizio. Atteggiamento che trova il suo modello nel Signore che, passando accanto all’uomo ferito, provò compassione e si chinò su di lui. Visitare i carcerati, allora, ha ancora oggi un primo ed elementare significato: farsi presenti a chi vive in prigione. La popolazione carceraria è formata in gran parte da poveri, emarginati, stranieri immigrati, tossicodipendenti: diversi di questi non hanno nessuno, non hanno persone che li vadano a visitare e dunque nessuno con cui parlare e da cui farsi ascoltare, ai cui occhi sapere di contare qualcosa. La perdita della libertà, la solitudine, la mancanza di vita sociale, la prospettiva di rimanere a lungo in carcere, spesso inducono atteggiamenti di perdita di interesse per la vita, provocano abbruttimento o tentazioni suicide. Il carcerato ha bisogno di un volto che lo ascolti e gli parli, gli faccia sapere con la sua presenza e la sua accoglienza che egli è più grande degli atti che ha commesso. A volte il carcere diventa luogo di manifestazione della Grazia e della Misericordia di Dio in maniera assolutamente sorprendente. Occorrono condizioni adatte, per evitare che la carcerazione generi persone ancor più arrabbiate con la vita e con la gente e pronte a commettere qualunque cosa; spesso, quando uno è scarcerato, non ha più nulla da perdere. Le modalità di presenza cristiana nelle carceri sono molteplici e creative; in definitiva il “visitare i carcerati non può essere separato dall’impegno politico e da una riflessione che, in nome della dignità dell’uomo e dei diritti umani, cerchi di individuare forme di pena che non privino della libertà, ma che prevedano azioni di riparazione”.
Gesti concreti
L’opera di Misericordia è comprensibile e attuale se si considera il problema del carcere nel suo insieme e nei riflessi che produce.
È sempre possibile tenere con un carcerato un rapporto epistolare: è una strada per impedire che la violenza dell’ambiente carcerario lo faccia disperare.
Fare un lavoro su noi stessi circa la percezione della tragedia della perdita della libertà da parte di un uomo e la coscienza della vergogna che spesso abita colui che è in prigione.
Vincere la paura di avere un ex detenuto come vicino di casa, come una persona che può avvicinare i nostri figli.
Compiere sempre un discernimento della nostra debolezza che ci porta a essere “omicidi, ladri, malvagi, calunniatori, violenti” nel nostro cuore, anche se poi non arriviamo a renderli concreti.
Sviluppare la capacità di compassione per la nostra fragilità: essa è anche la via d’accesso per entrare in contatto profondo con chi è in carcere e soffre per il rimorso o l’indurimento del cuore o perché preda della ribellione.
Sostenere politiche e atteggiamenti capaci di dare un futuro concreto a quanti terminano una pena.
Avere il coraggio evangelico di spezzare l’omertà, il silenzio, l’ignoranza, l’insofferenza verso i carcerati.
Sostenere i cappellani e quanti si spendono per riempire le carceri di cura, attenzione, relazioni autentiche, ascolto e di affetto.
L’aiuto maggiore può essere offerto al termine della pena: un aiuto fatto di vicinanza, di sostegno nel reinserimento lavorativo, nel recupero di relazioni in parte compromesse.
Sollecitare e educare la comunità cristiana a evitare assurde condanne e a porsi, invece, in atteggiamento di accoglienza e di solidarietà, anche verso le famiglie dei carcerati, le loro mogli e i loro figli (spesso sono quelli che soffrono di più).
A cura di Alessandro Maffiolini