Il verbo usato nel titolo è molto evocativo, dice il saper conoscere, ma anche il saper ringraziare, esige una capacità di esprimere necessità reciproche, comuni appartenenze, possibilità di vita e comuni difficoltà. Oggi è difficile riconoscere le altre persone: spesso non sappiamo neanche chi sia il nostro vicino di casa, come si chiami chi partecipa a messa con noi o chi siano i membri dei gruppi parrocchiali che con noi operano nella comunità. Se parliamo di poveri, la cultura attuale descrive spesso la povertà, la marginalità dei poveri, dei piccoli: dobbiamo però essere onesti e affermare che è difficile riconoscere i poveri come una realtà necessaria per vivere e come un patrimonio che abbiamo sempre con noi. Inoltre oggi non è più scontato il passaggio immediato che si era solito stabilire tra Gesù e i poveri: Gesù ha la forza di avvicinarci ai poveri e i poveri assomigliano così tanto a Gesù. Quasi si arriva a identificare l’uno con gli altri. Ormai è difficile quest’operazione anche perché l’esperienza di fede è “sempre più simile a un bisogno religioso rassicurante, giocato di più sul benessere psichico che non su un solido e provato fondamento storico”. Della fede cristiana si accoglie più facilmente quegli elementi che raccolgono la nostra vita in un universo “sacro” e privatizzato, in cui domina unicamente la mia volontà, i miei desideri e i miei piaceri. L’etica e la morale scompaiono lascando il posto al “secondo me”, al “io voglio così”. Alla fine è difficile riconoscere gli altri, l’importanza e la necessità di qualcuno che non sia identificabile con noi stessi. A volte non serve Gesù, altre volte sono fastidiosi i poveri, altre volte sono fastidiose le persone. Innanzitutto è urgente stare molto attenti a promuovere le occasioni favorevoli alle aggregazioni. C’è tanta gente che non arriva a espressioni di solidarietà umana o carità cristiana perché, di fatto, non ha occasioni favorevoli per incontrarsi. “Un tempo era più facile incontrarsi intorno alla istituzione cristiana, oggi non è più così. La crisi degli oratori e dei gruppi giovanili lo dimostra”. Così come la crisi delle comunità cristiane, troppo pronte a lottare tra loro per “un posto al sole” con ogni mezzo. Anche tra gli operatori pastorali, che dovrebbero essere i più attenti e i più coerenti, è facile il non riconoscere: gli altri gruppi, gli altri battezzati, quanti non hanno alcun potere. È più semplice riconoscere il prete che ha potere, che può dire “si o no”, che decide e molto meno o nulla gli altri che collaboratori condividono una responsabilità. Di esperienza così ne abbiamo e ne incontriamo tutti, anche chi vi scrive. Certo fa soffrire il non essere riconosciuti. L’onesta ci fa dire che è molto più terribile l’essere ignorati deliberatamente o far finta che non esistiamo: quante volte ci e mi capita nella vita, anche da quanti stimiamo e vogliamo bene. Questo è distruttivo della fede cristiana; dall’altra è pur vero che chi compie queste scelte spesso è così inserito nel proprio mondo che le altre persone sono annullate nella loro identità. “Prima ancora della fede in Gesù, la fede di Gesù, mi accompagna e mi sostiene, mi rivela come Dio è capace di amare. Una pedagogia per la carità deve passare prevalentemente attraverso la fede di Gesù, che a poco a poco mi comunica lo spirito della Pasqua”. In questo modo si può iniziare a passare alla fatica della carità e dell’aprire gli occhi della mente e del cuore per vedere fratelli e sorelle da amare. Chi annuncia la speranza di Gesù “è portatore di gioia e vede lontano”, ha orizzonti, “non ha un muro che lo chiude”; vede lontano perché “sa guardare al di là del male e dei problemi”. Al tempo stesso vede bene da vicino, perché “è attento al prossimo e alle sue necessità”. Speriamo di riuscire a vedere meglio gli altri. Buon cammino.
don Alessandro Maffiolini