Considero significativo riflettere sul tema della vita che ogni anno il Consiglio Episcopale Permanente ci propone in occasione delle Giornata Nazionale per la Vita. Il motivo è molto semplice: il mondo ritengo ha un tremendo bisogno di relazioni aperte all’incontro, di persone vere solidali con chi vive la fatica dell’esistenza umana, di “volontari” all’opera come buoni samaritani nell’ospedale da campo delle miserie umane. Il mondo ha necessità di cristiani che non hanno paura di essere criticati o messi da parte per la loro fedeltà a Gesù Cristo e al Vangelo. Gesù va ascoltato e fatto diventare “amico” intimo della nostra vita e delle nostre scelte. Come comunità cristiane siamo invitati a presentare una proposta culturale e umana credibile e capace di permettere a tutti di aprire le porte alla Vita vera e al suo accoglimento. Lascio ora risuonare la parola dei Vescovi, con una riflessione che cita dei brani del loro messaggio.
Desiderio di vita sensata
“Che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. La domanda che il giovane rivolge a Gesù ce la poniamo tutti, anche se non sempre la lasciamo alle chiarezza: rimane sommersa dalle preoccupazioni quotidiane. Traspare il desiderio di trovare un senso convincente all’esistenza. Gesù ascoltala domanda, l’accoglie e risponde: “Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti”. La risposta introduce un cambiamento – da avere a entrare – che comporta un capovolgimento radicale dello sguardo: la vita non è un oggetto da possedere o un manufatto da produrre, è piuttosto una promessa di bene, a cui possiamo partecipare, decidendo di aprirle le porte. Così la vita nel tempo è segno della vita eterna, che dice la destinazione verso cui siamo incamminati.
Dalla riconoscenza alla cura
È solo vivendo in prima persona questa esperienza che la logica della nostra esistenza può cambiare e spalancare le porte a ogni vita che nasce. All’inizio c’è lo stupore. Tutto nasce dalla meraviglia e poi pian piano ci si rende conto che non siamo l’origine di noi stessi. “Possiamo solo diventare consapevoli di essere in vita una volta che già l’abbiamo ricevuta, prima di ogni nostra intenzione e decisione. Vivere significa necessariamente essere figli, accolti e curati, anche se talvolta in modo inadeguato”. Non tutti fanno l’esperienza di essere accolti da coloro che li hanno generati (aborto, abbandono, maltrattamento, abuso). Davanti a queste azioni disumane ogni persona prova un senso di ribellione o di vergogna: questi sentimenti possono far fiorire la speranza e i talenti ricevuti. Solo così si può gettare ponti di responsabilità verso gli altri. È diventare consapevoli e riconoscenti della porta che ci è stata aperta, e di cui noi, con le relazioni e gli incontri, siamo testimonianza. Nasce da qui l’impegno di custodire e proteggere la vita umana dall’inizio fino al suo naturale termine e di combattere ogni forma di violazione della dignità, anche quando è in gioco la tecnologia o l’economia. “La cura del corpo, in questo modo, non cade nell’idolatria o nel ripiegamento su noi stessi, ma diventa la porta che ci apre a uno sguardo rinnovato sul mondo intero: i rapporti con gli altri e il creato”.
Ospitare l’imprevedibile
Il lasciarci coinvolgere da tutto questo ci conduce ad andare oltre quelle chiusure che si manifestano nella nostra società ad ogni livello. Potenziando la fiducia, la solidarietà e l’ospitalità reciproca si può spalancare le porte ad ogni novità e resistere alla tentazione di arrendersi alle varie forme di eutanasia. “L’ospitalità della vita è una legge fondamentale: siamo stati ospitati per imparare ad ospitare. Ogni situazione che incontriamo ci confronta con una differenza che va riconosciuta e valorizzata, non eliminata, anche se può scompaginare i nostri equilibri”. È l’unica via perché la uguale dignità di ogni persona possa essere rispettata e promossa, sempre e in ogni situazione. Qui infatti emerge con chiarezza che non è possibile vivere se non riconoscendoci affidati gli uni agli altri. Il frutto del Vangelo è la fraternità
don Alessandro Maffiolini