Nel mese missionario per eccellenza, il mese di ottobre, siamo abituati a sentire ancora di più i termini “fratelli e sorelle”. Pensiamo a quante volte anche li ascoltiamo nella liturgia, nei documenti della Chiesa, sino all’ultima enciclica del Papa, appena pubblicata. Ad alcuni possono sembrare frasi semplici e banali, perché sono cose che si sono sempre sapute e anche raccontate dai vari missionari che ogni tanto “passano”per le parrocchie. Dall’altra non dimentichiamo che i paesi civili arrivano da millenni di storia vissuti in condizioni di vita particolarmente sfidanti. Pensiamo alle continue guerre combattute in questi territori, alle scarse conoscenze in materia d’igiene e di salute, ai lavori particolarmente usuranti, alla fame, alle malattie, all’ignoranza diffusa. “Tutto questo ha fatto sì che si desse vita ad un sentimento assai diffuso di comunità, cioè di forte appartenenza ad una comunità. E tutto ciò anche per una semplice ed elementare ragione: degli altri – di tutti gli altri – si aveva semplicemente bisogno, per poter sperare di andare avanti”. Inoltre in diversi riecheggiava la frase evangelica dell’amare Dio e il prossimo.
Inoltre riconosciamo che l’inclinazione alla fraternità è un qualcosa che ci portiamo dentro: siamo “fatti di relazione e di relazioni”. Non ci sono automatismi di alcun tipo: è richiesta sempre una decisione presa nella libertà.
Siamo però arrivati ad una cultura e mentalità in cui le parole sentite non trasformano il nostro cuore, perché “il denaro, la tecnologia, l’espansione e la promozione dell’esistenza di ciascun soggetto prendono il sopravvento”. La fraternità diventa quindi un impegno, una missione, addirittura “la missione specifica della comunità ecclesiale per questo tempo ed in questo tempo”.
Un modo efficace far esplodere e distruggere questo modo di pensare, di dissolvere la coscienza insieme all’impegno per la giustizia e ai percorsi di integrazione, è stato proprio quello di svuotare di senso o alterare le grandi parole. Possiamo addirittura affermare che nella nostra epoca il prossimo è morto. Proclamare un annuncio del genere non significa evidenziare che “non ci sono più gli altri oltre il proprio io”, ma che in verità “ciascuno oggi pensa al reale facendo a meno del prossimo”. Oltre a ciò, le parole “fratello, sorella, prossimo” hanno smarrito la loro concretezza e profondità divenendo a, poco a poco, parole astratte e vuote, che non dicono più nulla alla vita concreta delle persone. Addirittura diventano parole a cui siamo allergici e che non consideriamo importanti e valide.
“L’altro è diventato sempre di più puro paesaggio, parte del paesaggio, non è più significativo per il nostro passaggio lungo l’esistenza”. Abbiamo certo molte occasione per stare con gli altri. È vero però che di fatto spesso preferiamo vivere da soli e da isolati. Le statistiche mostrano sempre più come la quota dei single si avvicina sempre più a quanti vivono in una famiglia. Aggiungiamo l’idea che abbiamo tutti: la possibilità di farcela da soli, di stare meglio da soli: il tutto è direttamente collegato “al grande processo economico-culturale di emancipazione dei cittadini delle parti ricche del pianeta”.
Specialmente noi che abitiamo nei paesi occidentali e civilizzati, viviamo sempre più guidati da una visione dell’esistenza in cui l”a propria realizzazione non passa attraverso la cura dell’altro, la relazione con l’altro, la felicità dell’altro. Attraverso l’amore per il prossimo e da parte del prossimo”. Ed ecco che con normalità la fraternità non appare più qualcosa di così semplice da realizzare.
don Alessandro Maffiolini