La parola che in queste settimana stiamo nei suoi molti aspetti, ha anche un’altra caratteristica particolare: è poco messa in pratica. Anzi dove più spesso viene pronunciata, sono proprio i luogo in cui essa è disattesa. “Siamo una comunità”, “Siamo una fraternità”, “Siamo sacerdoti legati da una fraternità sacerdotale”, “Siamo un paese, una città”: frasi così tanto diffuse che non corrispondono oggi quasi mai alla realtà. Le parole se non sono concretizzate non servono a nulla se non a perdersi nell’ipocrisia e nella distruzione della Chiesa. Solo il ripartire dalla convinzione di Gesù che il suo è Dio Padre, ci permette di metterci in gioco e di riprendere quota seppur con fatica. È il Vangelo infatti che offre una sequenza di azioni da intraprendere: la relazione personale con Dio c’impegna verso gli altri senza chiuderci in atteggiamenti difensivi o individualistici. Papa Francesco ci ricorda: “Abbiamo bisogno di riconoscere anche che ogni persona è degna della nostra dedizione. Non per il suo aspetto fisico, per le sue capacità, per il suo linguaggio, per la sua mentalità o per le soddisfazioni che ci può offrire, ma perché è opera di Dio, sua creatura”. E ancora: “Egli l’ha creata a sua immagine… Ogni essere umano è oggetto dell’infinita tenerezza del Signore. Gesù Cristo ha donato il suo sangue prezioso sulla croce per quella persona”. Per questo, caro lettore, “Ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita”. Gli altri sono così più vicini a noi da essere visti con uno sguardo di libertà, di umiltà e di amore autentico. È la fraternità vissuta che diventa capace di essere credibile e testimonianza autorevole del Vangelo: essa permette anche di superare le difficoltà e le sofferenze che si incontrano nel cammino. È un grosso rischio: va però affrontato senza paura. Questa è la radice di una chiesa missionaria e di una “chiesa in uscita”. La passione per Dio e per il suo Regno, deve farci correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro. A questo punto è chiaro a tutti che questa pastorale domanda una disponibilità interiore alla relazione, senza disattenzioni, senza frette, senza difese di fronte alle persone, senza attacchi, e senza criteri di divisione. Soprattutto “chiede la capacità di trasformare ogni incontro occasionale in un possibile momento di grazia”. Infatti essere custodi della fraternità è riconoscere il dono e la promessa di benedizione di cui ogni persona è portatore. Questo per la cultura di oggi è uno scandalo: è però evangelico al massimo.
don Alessandro Maffiolini
Riconoscere il dono e la benedizione di cui l’altro è portatore
Questo stile di impegno alla fraternità chiede di sostenere e confermare che la promessa della creazione contenuta nella vita di ogni uomo sarà una promessa di riuscita e di salvezza, perché ne è garante il Dio stesso della vita. Essere custodi della fraternità è riconoscere il dono e la promessa di benedizione di cui l’altro è portatore.
Tutti gli incontri che Gesù vive sono finalizzati a suscitare la fiducia nella vita, una vita che, nonostante le ferite che immancabilmente la segnano, mantiene la sua promessa di riuscita, di salvezza e di bontà che è contenuta già in ogni nascita. La creazione è stata fatta buona, l’uomo è stato fatto a immagine di Dio. Ogni vita racchiude una promessa (Cfr. Gn 1,26-31). E Gesù vuole confermare che questa promessa inserita nella creazione sarà una promessa di riuscita e la vita sarà salvata perché ne è garante il Dio stesso della vita.
Sono parole forse difficili, perché ogni giorno tocchiamo con mano come questa benedizione sull’uomo sia continuamente rimessa in discussione: le ferite nelle relazioni, l’esperienza della fragilità, le forze che vengono meno, la prospettiva della morte. Di fronte alla difficoltà di cogliere la vita nella prospettiva della sua riuscita, occorre continuamente riaffermare che Dio non viene meno alla sua parola, alla sua promessa.
Alla vita di ogni uomo va offerta una fiducia che andrà poi potenziata, confermata, alimentata, sottratta alla minaccia della delusione o della disperazione. Ed è questo che noi dovremo continuamente essere capaci di suscitare nell’incontro con le persone.
È significativo che Gesù di Nazareth inizi il suo ministero in Galilea proprio con malati ed emarginati: coloro che hanno tutte le ragioni per essere disperati. Coloro per i quali la fede è un atto difficile e in certe situazioni appare perfino impossibile. Papa Francesco dice questo attraverso una immagine: «la chiesa deve essere un ospedale da campo», che sa incontrare e raccogliere tutte queste ferite, per ridonare a coloro che rischiano di essere i delusi e i marginali della vita, la speranza e la fiducia che la vita ha senso, che la vita sarà riuscita, che la vita è salvata.
Costruire comunità di fraternità
Nel Vangelo la scoperta che ognuno di noi è figlio di un Dio che è l’Abbà va annunciata come buona novella, come gioia, come notizia anche agli altri: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (GS 41). Questo sentirsi chiamati alla sequela genera una fraternità che ha il segno della comunità di Gesù. Una comunità di uomini e donne riconciliati, “che tornano a vedere”, permettendo alla vita di esprimersi in tutta la sua ricchezza e armonia. Il caso più evidente nel Vangelo è Bartimeo (Mc 10,46-52). Gesù gli dice «Va’» (v. 52a), continua la tua vita; ma quell’uomo, nell’incontro con Gesù ha capito che questa vita nuova, che per lui comincia con la liberazione dalla cecità esteriore e interiore, trova la sua espressione più piena e completa in Gesù uomo nuovo. Allora il cammino di Gesù può essere un cammino che lo aiuta ad andare nella direzione giusta, ed entra così alla sequela di Gesù, a far parte dei suoi discepoli: «e lo seguiva lungo la strada» (v. 52b).
Il risultato della sequela è la comunità dei discepoli attorno a Gesù (Cfr. Mc 3,32;4,10) dove la fraternità è l’espressione di relazioni qualificate da una vita riconciliata, pienamente guarita. Uno stile di vita eloquente, quello della fraternità, che lascia trasparire ciò che il Vangelo, se accolto, è in grado di realizzare (Cfr. At 2,42-47).
Lasciarci plasmare da quanto celebriamo
È chiaro che anche oggi queste scelte possono essere suscitate, in libertà, da quelle presenze di Vangelo che i credenti possono attuare nel loro contesto di vita. Così, quando qualcuno, in forma più o meno embrionale e matura, ha deciso di seguire Gesù, quindi di entrare in qualche modo a far parte della sua comunità di discepoli, la sua scelta di fede va coltivata, alimentata. E quindi c’è un’azione pastorale volta a forgiare la fede in Gesù e il senso di appartenenza alla comunità dei suoi discepoli: in questa pastorale di consolidamento della comunità dei discepoli di Gesù, occorre una azione che sia fedele alla genesi della Chiesa e non a una logica di riproduzione o di semplice clonazione.
Luogo privilegiato di questo servizio è indubbiamente l’azione liturgica e in particolare la celebrazione eucaristica, soprattutto quella domenicale. È lì che la comunità cristiana custodisce la verità delle relazioni che si esprimono nella carità, dove «in comune non c’è solo la mensa, ma quello che essi mangiano; sul serio è assolutamente la stessa e medesima cosa: mangiano tutti Cristo, perché come uomini sono tutti uniti spiritualmente alla medesima realtà fondamentale di Cristo, tutti entrano per così dire in un unico spazio spirituale che è Cristo. […] Nell’Eucaristia, il nutrimento, vale a dire Cristo, […] vuole trasformare noi, assimilarci a Cristo, così che possiamo uscire da noi stessi, giungere oltre noi e divenire come Cristo. Ma questo significa di conseguenza che tutti i comunicanti, con la Comunione, vengono tratti fuori da sé e assimilati all’unico cibo, vale a dire alla realtà spirituale di Cristo. Questo a sua volta vuol dire che essi vengono anche fusi tra loro. Vengono tutti tratti fuori da se stessi e condotti in un unico centro. I Padri dicono: essi diventano (o dovrebbero diventare) “corpo di Cristo”. Ed è questo l’autentico senso della Santa Comunione: che i comunicanti divengano tra loro una cosa sola per mezzo dell’uniformarsi all’unico Cristo. Il senso primario della Comunione non è l’incontro del singolo con il suo Dio – per questo ci sarebbero anche altre vie – ma proprio la fusione dei singoli tra loro per mezzo di Cristo. Per sua natura la Comunione è il sacramento della fraternità cristiana».
Si delinea qui un cammino che aiuta tutta la comunità ecclesiale a divenire soggetto di fraternità. Un impegno certamente nostro, ma soprattutto una scommessa di Dio sulla nostra possibilità di essere compiutamente figli nel vincolo della fraternità.
Credo importante, a conclusione, riconsegnare quanto Paolo VI pronunciò nell’ultima Sessione del Concilio Vaticano II, là dove egli richiama l’attenzione assunta dal Concilio nei confronti dell’uomo contemporaneo: «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani […] anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». E richiamando l’impegno complessivo del Concilio, considerava: «Tutta questa ricchezza dottrinale è rivolta in un’unica direzione: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità».
Un discorso che sembra essere l’eco di quanto Pietro disse a Cornelio nel momento in cui questi andandogli incontro si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio: «Àlzati: anche io sono un uomo!» (At 10,26). Questa pregnante espressione potrebbe essere riconsegnata anche oggi là dove ci è chiesto di condividere il desiderio e il sogno di costruire luoghi di fraternità. Nella rinnovata consapevolezza di doverci coltivare in umanità, nell’essere pienamente partecipi del vissuto di ogni uomo e di ogni donna, nell’apprendere da ogni incontro l’arte del divenire umani, ci è consegnata la chiave per dischiudere la vita al Vangelo e affermare la veridicità della fraternità. Nello stesso tempo, sarà l’affidabilità delle nostre comunità, la loro bella umanità, scaturita dalla bontà e dalla bellezza dell’incontro con il Signore Gesù, a dire la verità che si cela nel cuore di ogni persona.
don Alessandro Maffiolini