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“Tutti a tavola”: lo slogan del Grest di quest’anno voleva far passare l’idea che il mangiare è un atto profondamente umano ed è calore, accoglienza, sicurezza. Ha a che fare sia con la quotidianità (in fondo mangiamo tutti i giorni), sia con il fare festa: in quest’ultimo caso è un mangiare insieme, anzi spesso non esiste festa senza banchetto. Occorre però saper condividere e avere la capacità di offrire le proprie qualità, i propri limiti, la propria vita e tutto se stessi. La tavola è ben preparata per essere disfatta, perché l’atteggiamento naturale verso l’ospite è quello dell’offerta e della gratuità. “Servitevi come se foste a casa vostra, si dice all’ospite, nel momento in cui vogliamo che si senta pienamente a suo agio, non ci sono formalità che si pongono tra sé e l’altro: nell’offrire il cibo si offre intimità. Il mangiare è calore, accoglienza, sicurezza”. L’esperienza estiva per un oratorio parrocchiale non può essere se non qualcosa alla quale tutti siamo invitati e che chiede un atteggiamento di accoglienza per incominciare a essere vissuta. Possiamo dire che è vero dopo quattro settimane di esperienza? Molte volte pensiamo conti solo ciò che diciamo, solo le parole (e quanto bravi siamo noi cristiani): non è così; il modo con cui ci poniamo in relazione con gli altri, chiunque essi siano, ha la sua importanza. L’atteggiamento concreto è fondamentale affinché la parola possa entrare nella vita delle persone e permettere di riconoscere con gratitudine quanto gli altri hanno fatto per noi. Può allora scattare l’occasione per “far nascere un nuovo rapporto dove il dono ricevuto diventa a sua volta un dono ricambiato”. È normale allora entrare nell’ottica della condivisione e della corresponsabilità. Ogni Grest inizia da una proposta chiara fatta dalla comunità cristiana alla quale aderiscono degli adolescenti e giovani che dovrebbero condividere una proposta di fede (anche minima) su cui lavorare e arrivare a un progetto comprensivo di preghiera, giochi, attività, musiche, balli, gite. In questo modo ognuno mette in comune i suoi doni e le sue specificità e inizia a lavorare insieme con gli altri. Un cammino così diventa comune quando si abbandonano i propri egoismi, s’inizia a dialogare, si mettono in comune le idee e si pensa di essere un gruppo unito, in cui nessuno deve prevalere sull’altro, ma deve solo lavorare con gli altri e arrivare alla meta. Si assume “l’occhio buono”, uno sguardo “capace di cogliere il bello di ciò che è stato preparato e che c’è donato”. Non si hanno allora “segreti”, non esiste più il mio, non esiste il mio gruppo migliore del tuo: solo se ci si apre agli altri e si diventa esperti di generosità, questa attività estiva può, col tempo, portare frutti anche nella vita ordinaria dei ragazzi e delle loro famiglie. Un Grest diventa ancora più bello se diventa luogo di condivisione, luogo capace di generare una comunità, una trama di relazioni condivise. Un Grest diventa esperienza concreta di crescita, se gli è permesso di lasciare un segno indelebile nella vita di quanti, ragazzi o adulti, vi partecipano. Un Grest è ancor più significativo se è capace di aprire sguardi nuovi verso il futuro e invitare a tradurli in gesti tangibili. Questi sono gli autentici criteri di valutazione che permettono di evitare come un grosso impegno fatto di tanto lavoro, diventi solo una bella parentesi che con la fine dell’estate si dissolve. Queste espressioni, guarda caso, sono simili a quanto il cammino sinodale della nostra diocesi sta mettendo in cantiere per costruire e sognare la Chiesa del domani. È una Chiesa chiamata a sperimentare forme di partecipazione e di confronto più ampie possibili: vanno evitate le solite riunioni, in cui si parla di tutto, ma non si arriva mai al dunque. Occorre arrivare a una decisione che va pubblicizzata e condivisa sempre con tutti: solo così anche chi non partecipa si sente realmente coinvolto e parte di una comunità che cammina e ha attenzione ad ogni suo membro. Ogni comunità parrocchiale deve sperimentare il quotidiano delle relazioni: i gruppi; le forme di aggregazione provvisorie e occasionali; le forme di coinvolgimento che si attivano per sentire il parere di quelle persone che non hanno incarichi ministeriali nella comunità, ma di cui fanno parte. Alcune volte anche le nostre comunità, devono avere (e pretendere) pastori e sacerdoti, capaci di pensare meno a se stessi e di creare bisogni inesistenti e più disponibili a lavorare insieme (anche ai propri “confratelli”) per arrivare a riconoscere quel “noi che, guidato dallo Spirito, ci costituisce Chiesa. Quel noi che permette di proiettarci in una dimensione missionaria anche verso coloro che sono lontani o periferici alla vita delle nostre comunità”. A Trecate riusciamo a compiere questo cammino sinodale se attuiamo un contesto di relazioni di comunione capace di coinvolgere tutti in un clima di partecipazione e di condivisione reale e non fittizia (solo a parole). Abbiamo il desiderio e la volontà di essere cristiani in uscita pronti ad accogliersi, accettarsi, amarsi, servirsi a vicenda? Abbiamo l’umiltà di riconoscere i nostri errori e il coraggio di non guardare il fratello con sufficienza, accusandolo di colpe non sue? È più facile accusare sempre gli altri che guardare noi stessi. Riusciamo a creare un’esperienza di fraternità capace di generare una vera comunità unita? Vediamo nell’altro una potenzialità di doti e non un nemico pronto a rubarci la scena? Mettiamoci alla scuola del Sinodo e chiediamo, con il cuore in mano, a quanti hanno affrontato l’impegno del Grest di non vanificare l’esperienza fatta e di aiutarci a vivere le sue dinamiche nella nostra comunità per essere una Chiesa in uscita e capace di generare figli di Dio.