Molte persone sono ancora oggi nella sofferenza e nella malattia. Ci si rivolge ai medici, si sborsano alcune volte molti soldi. Inoltre diverse volte hanno la convinzione di essere colpevoli di qualche cosa e destinatari di punizioni che arrivano da Dio. Abbiamo un’idea di un Dio malvagio e che desidera la sofferenza dell’umanità. Certo è comodo pensare questo: è sempre colpa di qualcun altro. Nel brano dell’emorroissa, il vangelo ci spiega chiaramente che Gesù è vicino alle persone, addirittura riesce a leggere i pensieri e i drammi che affliggono il cuore degli uomini. La donna dimostra una fede coraggiosa, che non si rassegnava alla malattia, ma coltivava ogni giorno fiducia e speranza. Lei non dubitava della bontà e della misericordia di Gesù ed era certa che egli avrebbe esaudito la sua preghiera. La fede fa compiere grandi cose, spesso impossibili, ma richiede fiducia perché è inefficace se prevale il dubbio, l’impazienza, la paura: questi sono segni di sfiducia e quindi non attivano la potenza guaritrice di Cristo. Ogni battezzato è chiamato a riconoscere sempre in Gesù la presenza divina e il totale abbandono in Lui e nella sua volontà. Questa donna, modello del cristiano, è stata messa a dura prova, ma non è stata vinta dalla malattia: anzi fu per lei lo strumento per crescere nella fede e raggiungere la pace, la gioia, la salvezza, l’onore di diventare figlia di Dio. Siamo onesti: non possiamo accusare Dio della sofferenza del mondo. Dio non ha creato la malattia: Lui è il buon samaritano, il nostro Salvatore che “si fa sempre trovare sul nostro cammino, ha compassione di noi e cura le nostre ferite prodotte dal peccato fino a completa guarigione”. Spetta a noi, però, credere in lui, pregarlo e mettere in pratica con fiducia e amore il Vangelo. Solo in questo modo la fede ci dona la capacità di vedere le cose al di là delle loro apparenze. “Il male, la malattia, le disgrazie, la morte, nascondono Dio, ma non eliminano la sua esistenza e il credente vede ugualmente la sua presenza misericordiosa nel mondo, lo riconosce nel Vangelo, nei poveri, nei malati, nelle opere di carità, nel dolore, nei Sacramenti, tutte cose, queste, che il non credente non riesce a vedere”. Dall’altra è pur vero che lo sguardo della fede ci permette di “riconoscere la nostra precarietà, la nostra piccolezza, l’urgenza della conversione”. Addirittura può allontanarci dai falsi beni e suscitare il desiderio dei veri beni: la salvezza, l’amore di Dio, la giustizia, la carità, la pace. Nella malattia inoltre abbiamo l’occasione di poter riattivare il dialogo con Dio e con quanti ci stanno vicino e ci assistono. Tutte queste persone, come anche Dio, non diventano più degli estranei ma degli amici con cui “condividere” un pezzo del cammino della vita. Papa Francesco fa un invito che è necessario tenere presente: “In genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. E penso a quanto è importante educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel tempo della malattia. Un’educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano anestetizzati verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la sofferenza e di vivere l’esperienza del limite”. Quante volte davvero il nostro cuore è bloccato, è anestetizzato. Dobbiamo vivere la malattia, qualunque essa sia, come un luogo propizio per riappropriarci della nostra identità più autentica: quella di essere figli amati dal Padre.
don Alessandro Maffiolini